L’immaginario orientale e il teatro povero di Grotowski. C’è un grande mito che si aggira nella storia del teatro occidentale: il «teatro orientale». Questo mito, frutto del lavoro e del pensiero di quegli uomini e donne che hanno fatto la storia del teatro in Occidente, si è spesso presentato come un mito delle origini, delle fonti, ma più di una volta è servito a forzare e sfondare barriere proprie della tradizione occidentale. In questo senso l’immaginario del teatro orientale agisce ancora oggi, ovviamente anche fuori dalla cultura teatrale, come una delle facce di quel potere dell’immaginario che investe tutte le forme della vita diffusa e ha conseguenze sulla vita interiore ed esteriore delle persone. Per questo può risultare interessante cercare di capire meglio come un immaginario, inteso come sistema di produzione e mediazione di apparenze che generano valore, possa mutare o abbia influito sulla morfologia di alcuni luoghi privilegiati della nostra storia culturale (in questo caso della storia delle poetiche teatrali), con maggiore incidenza dalla metà del secolo scorso fino a oggi, indagandone i meccanismi interni di attuazione e di attualizzazione, che oggi a volte sono talmente radicati nell’esperienza vissuta da sfuggire all’analisi.
Da questa prospettiva sarebbe stato corretto, ma banale, descrivere solo le influenze esplicite o implicite, ammesse o negate del teatro rituale orientale, dello Hatha yoga, del training attoriale della tradizione del teatro di Pechino, del Kendo, del teatro danzato classico indiano, del pensiero zen e taoista sulla concezione e sulle pratiche specifiche del «teatro povero» di Jerzy Grotowski. È un’altra la storia di intrecci e ritorni che in questo luogo vorrei fare emergere: una storia paradigmatica, a mio avviso, del funzionamento dell’immaginario (non solo orientale) che investe i modi in cui la tradizione estetica e artistica occidentale sceglie nuove vie per il suo rinnovamento e per «bruciare» i propri codici e i propri palinsesti simbolici. Per altri versi questa storia, apparentemente circoscritta all’esperienza teatrale, dei rapporti fra l’immaginario, il suo discorso, e l’esperienza estetica occidentale ci porta vicini alla parte più magmatica e vitale (per questo più magnetica) di ciò che oggi si può ancora chiamare l’oggetto dell’estetico (ancor più che dell’estetica, forse).
Risonanze fra Grotowski e le sue fonti
Il grande contributo di Stanislavskij (1865-1938), secondo Grotowski, è quello di avere sollevato questioni fondamentali sul lavoro dell’attore e sulla motivazione delle sue azioni. Grotowski, nato in Polonia nel 1933, si considerava un allievo sui generis del grande uomo di teatro russo, ma ha ribadito in più occasioni che il più grande contributo alla professione dell’attore dato da Stanislavkij consisteva nel fatto di avere stabilito l’obbligo, per l’attore occidentale, del lavoro e del training quotidiano «al di là dello spettacolo».
Il suo sforzo di pensare sulla base di quello che è pratico e concreto. Come toccare ciò che non è tangibile? Volle trovare delle vie concrete verso ciò che è segreto, misterioso (Grotowski, 1980, pp. 194-195).
Nelle parole di Grotowski iniziamo a puntare la nostra attenzione sugli aspetti che colpiscono il regista polacco e che fatalmente ricalcano temi tipici della tradizione orientale e delle sue traduzioni per la cultura europea. Risulta quasi banale marcare l’analogia con l’indifferenza fra arte e vita che Grotowski apprezza nel lavoro sull’attore che Stanislavkij propone e il fatto che l’intangibile, che è però l’essenziale per la vita dell’opera e dell’artista è accessibile per una «via» concreta e pratica, proprio come non smette mai di ricordare il monaco zen.
Ma la questione più importante per Grotowski nell’insegnamento del mentore russo riguarda qualcosa di ancora più profondamente orientale: la questione dell’essenza fluttuante della verità. Stanislavskij era in costante situazione di rinnovamento, in una continua disponibilità a mettere in questione le fasi acquisite del processo di formazione dell’attore e dell’interpretazione dei testi. Grazie a lui Grotowski fa sua l’impossibilità metodologica a cristallizzare un metodo come «ricetta» per il lavoro dell’attore e del regista. Stanislavskij, come Artaud, altro nume tutelare di Grotowski, va salvato dallo scempio dei suoi epigoni che cercano di fissare qualcosa a uso di «produzione teatrale» e non di ricerca teatrale. Anche qui le risonanze orientaleggianti sono palesi: la via (il metodo) si dà solo se si rifà ogni volta di nuovo, come il teatro, l’evento che il teatro deve essere per sopravvivere alla sua morte, che c’è solo se si ridà ogni volta come nuovo l’incontro fra attore e spettatore, perché per Grotowski il teatro è essenzialmente questo incontro.
Quando giunsi alla conclusione che il problema della costruzione di un sistema mio era illusorio e che non esiste alcun sistema ideale che sia la chiave della creatività, allora la parola «metodo» cambiò per me significato. Esiste la sfida a cui ognuno dovrebbe dare la propria risposta (Grotowski, 1980, p. 194).
Quello che muta è il rapporto fra il processo e il prodotto: per Grotowski quello che conta è soltanto il processo di creazione di una propria risposta personale a problemi di tipo «metodologico». Pur credendo nell’esistenza di un percorso concreto di ricerca e di training per l’attore, egli ritiene che quest’ultimo sia qualificato e autentico solo se individuale e personale.
Cosa rimane dunque? Al posto del metodo rimane il rimando a una pratica, rimangono le tecniche e l’etica: anche qui siamo molto vicini allo zen. Le tecniche sono direttive pratiche, precise fino al parossismo, direttive che combinate in modi differenti danno risultati verificabili dal singolo soggetto che le mette in pratica. L’etica è l’uso delle tecniche: il come, quando e soprattutto il perché di quest’uso. L’etica dimostra qui la stessa importanza che ha in tutte le discipline orientali, la priorità che il maestro invita in ogni istante l’allievo a perseguire, la ricerca riguarda quindi più l’atteggiamento con cui le tecniche vengono praticate, scoperte, verificate e realizzate o non realizzate per scelta.
L’indicazione è molto vicina a quella delle tecniche di meditazione dello zen. Inoltre è lo stesso Grotowski che ribadisce la relazione fra l’atteggiamento etico che guida la ricerca estetica e la non distinzione fra arte e vita: «Non credo che il mio lavoro a teatro possa essere definito col nome di nuovo metodo [...]. Non ritengo neppure che si tratti di qualcosa di nuovo. Penso che questo genere di ricerca sia esistito più frequentemente all’esterno del teatro, benché talvolta sia esistito anche in certi teatri. Si tratta del cammino della vita e della conoscenza»
Il dono nell’abbandono
Una delle frasi più celebri e citate – anche fin troppo – come carattere proprio della poetica del teatro povero di Grotowski riguarda la «penetrazione psichica dell’attore», che più che rimandare alle correnti introspezioniste o, in modo superficiale, alle traduzioni teatrali dei fondamenti della psicoanalisi, ci riportano ancora una volta, a mio parere, direttamente a una vicinanza con la meditazione orientale e soprattutto, sul piano teoretico, con le concezioni della soggettività e della trascendenza. Per dare ragione di ciò riprendo il passo di Grotowski ampiamente e non, come di solito fanno in molti, estrapolandone solo le ultime tre righe che si prestano bene a una definizione da mandare a memoria.
Comunque, il fattore determinante di questo processo è costituito dalla tecnica di penetrazione psichica dell’attore. Egli deve imparare a fare uso della sua parte come di un bisturi che gli serva per auto-sezionarsi.
Non si tratta di rappresentare se stesso alle prese con determinate circostanze, né di «vivere» un personaggio; né tanto meno comporta quel genere di recitazione, tipico del teatro epico, basato sull’analisi a freddo. È fondamentale, invece, utilizzare il personaggio come un trampolino, uno strumento che serva per studiare ciò che è nascosto dietro alla nostra maschera di ogni giorno – l’essenza più intima della nostra personalità – per offrirla in sacrificio, palesandola.
Ciò è un eccesso, non solo per l’attore, ma anche per il pubblico. Lo spettatore intuisce, a livello conscio o inconscio, che tale atto è un invito, rivolto a lui, ad agire in maniera analoga: questo causa spesso opposizione e indignazione, poiché i nostri sforzi costanti sono tesi a dissimulare la verità che ci concerne, non solo di fronte al mondo, ma anche di fronte a noi stessi; noi tentiamo di evitare la verità su noi stessi: ed ecco che qui, invece, siamo invitati a fermarci e ad analizzarci. E noi temiamo di venire tramutati in statue di sale, se ci giriamo, come accadde alla moglie di Lot.
Il compimento dell’atto in questione (auto-penetrazione, denudamento) comporta la mobilitazione di tutte le energie fisiche e spirituali dell’attore che si trova in un atteggiamento di risoluzione indolente, una disponibilità passiva che consente di realizzare una partitura attiva (Grotowski, 1970, pp. 45-46).
Ho scelto di riportare il passo per intero poiché credo che in questa forma più ampia restituisca meglio una doppia evidenza: da un lato Grotowski non può essere semplicemente liquidato come un buon lettore della psicoanalisi e questo passo in realtà dimostra anche la distinguibilità della sua posizione in campo teatrale rispetto a chi ha sposato in pieno certe derive psicoanalitiche per fare o «leggere» il teatro, dall’altro evidenzia chiaramente alcune risonanze orientali che abbiamo già ripreso.
Grotowski riteneva che l’accettazione di se stessi e l’integrità indispensabili al lavoro creativo si potessero raggiungere, paradossalmente, solo trascendendo la propria individualità e il proprio corpo, tentando di «rifarlo» il corpo, come vaticinava Artaud.
Gli «esercizi fisici», per Grotowski, fornivano l’area di lavoro per questo andare oltre: spesso erano basati su posizioni e movimenti ginnici molto vicini all’Hatha yoga e si fondavano su una «qualità di sfida». Affrontando questa sfida, atteggiamento questo molto simile a quello taoista, l’attore raggiungeva una condizione di «fiducia primaria», quando riusciva a vincere la sfida trovando il suo «modo» (la sua via) per raggiungere uno stato ignoto «lasciando che fosse la propria natura (per quanto possibile) a trovare il modo» (Grotowski, 1972, p. 112).
La trascendenza dell’io comune, quello che abita la «chiacchiera» del quotidiano, da parte dell’attore non è qualcosa di volitivo, di attivo: bisogna accettare un rischio che riguarda l’essere contagiati dalla verità e quindi anche il rischio di contagiare. Questo rischio è già presente negli esercizi fisici. «La trascendenza prevede che non si oppongano resistenze di fronte alla trascendenza» (Grotowski, 1979, p. 134).
Lo sblocco delle difese, il superamento delle barriere psichiche cifrate nel linguaggio del corpo consente l’abbandono verso la trascendenza, è una soglia molto vicina alla propria natura e al proprio «modo», non vi si oppone: questo è il cuore del gesto autentico, questa «risoluzione indolente», l’attività nella passività e la passività nell’attività. «Il risultato è l’annullamento dell’intervallo di tempo tra gli impulsi interiori e le reazioni esteriori in modo tale che l’impulso sia già una reazione esterna» (Grotowski, 1970, p. 22).
Questo è un dato empirico riscontrabile, ma è anche lo stesso atteggiamento che David Feldshuh riscontra nel suo articolo Lo Zen e l’attore: «Nello Zen c’è una parola che indica la divisione fra intelletto e azione. La parola è suki, che significa “uno spazio senza oggetti”, oppure “crepa, fenditura, spaccatura in un oggetto solido”. Ogni separazione tra pensiero e azione è una forma di suki, che porta a un’interruzione, a una rottura del flusso di creatività e sensibilità. Per quanto riguarda il moto fisico, il suki impone un velo di pensiero che può ostacolare il movimento espressivo e spontaneo» (1979, p. 89).
Grotowski lavora proprio su questo ostacolo, per affrontarlo in una modalità non volitiva. La qualità del processo che vede coinvolto l’attore del teatro povero non è distinta, connotata in modo forte dalla volontà, l’intenzione che rivela la posizione del soggetto rispetto all’evento che si fa in scena ha un’evidente valenza etica. Tale valenza punta a creare, in senso letterale e per questo il teatro di Grotowski vuole essere un rito, uno spazio vitale (e non solo psicologico, sarebbe riduttivo) in cui non ci sia interruzione fra pensiero e azione, fra conoscenza e vita, fra estetica e etica.
Bibliografia
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Flaszen L. (1960), Siakuntala, «Materialy-Dyskusje», vol. 5.
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Grotowski J. (1972), Co bylo-Kolumbia etc., «Dialog», vol. 10.
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Grotowski J. (1980), Risposta a Stanislavki, in F. Cruciani e C. Falletti (a cura di), L’attore creativo, Firenze, La Casa Usher.
Kumiega J. (1989), Jerzy Grotowski. La ricerca nel teatro e oltre il teatro 1959-1984 (trad. it. a cura di L. Gandini), Firenze, La Casa Usher.
Note
1 An interview with Grotowski, «The Drama Review», vol. 40, 1968, p. 43.2 Per la ricostruzione della vicenda e per trarre spunti per noi rilevanti rispetto alla formazione e all’evoluzione della poetica e del lavoro di Grotowski è stato molto importante il confronto con il testo di J. Kumiega, Jerzy Grotowski. La ricerca nel teatro e oltre il teatro 1959-1984, trad. it. a cura di L. Gandini, Firenze, La Casa Usher, 1989.3 Meeting with Grotowski, «The Theatre in Poland», vol. 7, 1972, p. 10.4 Ibidem.5 Come si è visto, il confronto con le pratiche degli attori sperimentate da Grotowski nello spazio immaginario di Sakuntala ha cambiato la tradizione del training attoriale in Occidente e ha inaugurato scelte estetiche che hanno profondamente inciso sulle poetiche della seconda metà del Novecento in campo teatrale.
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